Joy, freshness and an explosion of colour - that's the pop cocktail I offer in these photographs of different waterside locations that invite a passionate look at how we interact with nature.
The low-angle shots and the deliberate simplicity of the composition create windows towards a fantastic world, a world of lightness and joie de vivre.
In this proposal, the observer changes perspective and looks through these "windows" with a different perception than if he were in the scene. A distance is created that allows us to observe the beauty of common places, where the boundary between reality and dream dissolves.
To create this vision, I relied on what might be considered certain technical irregularities when shooting: overexposed colours, taking the photo at times when the sun is more vertical, eliminating contrasts, characters not perfectly in focus. The result is a photograph that looks like a hyper-realistic painting.
- Limited edition of 8 signed and numbered copies
«Ti avevo detto che saremmo state bene, Maria.»
Siamo sdraiate sui lettini a bordo piscina, sul tetto dell'hotel quattro stelle. Renata è rilassata, a suo agio nel costume intero dorato, gli occhiali da sole con la montatura spessa, immersa in una nuvola di profumo.
Rimango in un silenzio ostinato, come ho fatto per tutto il viaggio: non sopporto che mi forzino a fare quello che non desidero. Volevo solo stare a casa: occuparmi del giardino, cucinare per i miei nipoti.
«Meno male che ho insistito e ti ho comprato il biglietto. A Bologna adesso ci saranno cinque gradi. E la nebbia.» Ride, come se le avessero raccontato una storia divertente.
Fingo di dormire, ma intanto osservo da dietro le lenti scure. Gli altri clienti sono famiglie colombiane con bambini piccoli e coppie anziane, americane, della nostra età. Accento chiuso, che trovo quasi insopportabile dopo una vita passata a insegnare inglese britannico.
«E poi a Cartagena si sta troppo bene. Io ho viaggiato dappertutto, ma qui mi trovo meglio. Sono tutti gentili. E soprattutto: Non. Ci. Sono. Italiani.» Scandisce le ultime parole ad alta voce, vuole dimostrarmi che nessuno la capisce.
Ogni tanto ha queste trovate che mi fanno sorridere. Parla in continuazione, ma è piacevole. Dopo la lunga malattia di Guido e tanto silenzio, sono stata fortunata ad averla conosciuta al corso di pittura: mi si è attaccata come un'adolescente.
«Ti vedo già diversa, sai? Non hai più quelle terribili ragnatele attorno agli occhi. E lo vedo dal tuo corpo, anche se fai la ritrosa. Ti stai rilassando, questa è la verità.»
In effetti ho sempre adorato stare sdraiata al sole. La luce e il calore sono diversi da Cervia, dove sono stata per una vita con Guido e i ragazzi, ma il posto comincia a piacermi. Sono solo troppo orgogliosa per dirglielo.
Due uomini sui settant’anni, di sicuro statunitensi, ci passano davanti e salutano con un sorriso, alzando i cocktail. «Questi sembrano carini. Hanno un nome per gli americani del nord che svernano a Cartagena, gli hotel sono pieni.»
Questa volta sorrido, mi metto a sedere sul lettino, tolgo gli occhiali da sole
e le prendo la mano.
«Sì, l’ho letto su internet, Renata: li chiamano Snowbirds, cioè uccelli della neve. Sono migratori che arrivano in inverno e tornano a casa a primavera. Proprio come noi.»
La fisso, voglio che le mie parole siano molto chiare. «Senza di te sarei ancora chiusa in casa, da sola. Ti devo ringraziare, perché sei una grande amica. E sto benissimo.»
Mi scruta da sopra le lenti scure, uno sguardo sorpreso seguito da una risata forte, che fa voltare le persone attorno.
«Maria! Hai parlato! Grazie, Signore! Non ci speravo più.» Mi stringe la mano, sorride affettuosa. «Molto bene, vedrai che stasera ci divertiremo.»
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«La notte è stata terribile: una lite al bar, con un gruppo di ragazzi. Uno mi ha picchiato, ha tirato fuori un coltello e mi sono difeso. Ho sparato.
Mi sono perso per le campagne, senza sapere dove andare. Ho gettato la pistola e il cellulare, per non farmi rintracciare. Credo fossero le due di notte, ormai. A un incrocio, ho visto i cartelli: dicevano Salerno, centro e porto.
“Devo scappare”, ho pensato.
Avevo in testa una gran confusione, sapevo solo che quelli erano camorristi: mi avrebbero fatto fuori, dovevo nascondermi.
Il porto era deserto, ma dovevo stare attento alle guardie che sorvegliano i docks. Allora ho abbandonato la macchina in un parcheggio isolato, un posto da camionisti e puttane.
Ho camminato, non so quanto: la rete era alta, con il filo spinato sopra, impossibile da attraversare. Ero impaurito, ma poi ho trovato un cancello aperto: dei camion andavano avanti e indietro, non c’era nessun altro.
Sono corso dentro, più veloce possibile, col terrore che ci fossero le telecamere.
Fra i docks, non c’erano posti dove nascondersi. Troppa luce dappertutto, quei dannati porta container che passavano di continuo.
Ho valutato di salire sulla gru, ma c’era vento, la scala era scivolosa. Di fronte c’era questa nave cargo, con un mondo disegnato sul fumaiolo. Ho pensato che mi avrebbe portato lontano, per salvarmi, non mi interessava dove.
Ho aspettato il momento buono, sono salito di corsa. Mi sono nascosto in una stiva, al buio, finché non ho sentito che si muoveva. Ma avevo fame, sete. Sono dovuto uscire e un marinaio mi ha trovato.»
La mia voce si spegne. Il capitano della Sedna è un africano calvo, con lo sguardo duro. Non ha detto una parola da quando quell’energumeno mi ha scortato in questa stanza.
Mi scruta con attenzione, e la mia mente corre: ora mi denuncerà ai Carabinieri, dovrò tornare al paese, i camorristi mi troveranno. Sono fottuto.
«Dove credevi di andare?» Parla italiano con un accento francese, voce profonda, neutra. Dalla sua espressione seria non riesco a indovinare cosa pensa.
«Non lo so. Ovunque, ma non posso tornare a casa: anche se non l’ho ucciso, quelli mi troveranno.»
«In Italia ci sono delle pene gravi per i clandestini. L’unica possibilità è scaricarti a Messina, ma mi farai perdere un sacco di tempo: siamo già in ritardo e ci mancano almeno tre persone di equipaggio per la traversata. Abbiamo circa due mesi di navigazione fino a Mombasa.»
Parlo in fretta, quasi lo interrompo: «Lavorerò. Posso aiutare, anche per compiti di fatica. La prego, tornare a casa ora è troppo pericoloso. Comincio subito, mi faccia solo chiamare i miei genitori, saranno preoccupati. Non gli dirò che sono qui.»
Mi squadra, sembra indeciso. Non posso fare a meno di muovermi a disagio sulla sedia.
«Mi prendo questa responsabilità, ma sarà meglio che righi dritto o va a finire male, molto male. Puoi rimanere, i miei uomini ti daranno le uniformi e una cabina, ma voglio patti chiari: quando arriveremo in Kenya, scenderai di notte e non ci saremo mai visti. Adesso sparisci.»
Il marinaio mi fa cenno di seguirlo. Mi porta alla cabina senza una parola, ma prima usciamo fuori sulla plancia. Attorno a noi si vede solo mare aperto, sotto un sole a picco piantato nel cielo azzurro.
L’aria fa odore di diesel e libertà.
Nonostante tutto, un sorriso compare sul mio volto.
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Sono in spiaggia da due ore, immobile sull’asciugamano, lo sguardo inchiodato alla passerella deserta: lei non arriva.
Isabel, mia sorella piccola, mi avrà chiesto di andare a fare il bagno con lei almeno duecento volte, poi è partita da sola, scocciata. Mi diverto con lei, ma oggi non posso proprio muovermi.
Ana vive in un’altra città e non risponde ai miei messaggi da giorni, per il resto della settimana l’ho sentita fredda, distante. Solo qualche emoticon ogni tanto.
Mi manca da morire. Sollevo il polso sinistro e annuso il suo profumo, incollato allo swatch multicolore che mi ha dato domenica scorsa.
È stata una sua idea: «scambiamoci gli orologi. Poi me lo ridai domenica prossima, ci sei vero?» Lo ha detto con quel sorriso che le accende gli occhi verdi, rendendoli stupendi.
Lì per lì sono rimasto ammutolito, non potevo crederci.
«Certo, è una bellissima idea. Ecco qui.» Le ho dato il mio swatch, bianco e nero. Poi, da lunedì, non ho fatto altro che annusarmi il polso, ogni pochi minuti.
Fa un caldo mortale, mi sposto sotto all’ombrellone verde. Sono sudato, nervoso. Non sopporto stare fermo in spiaggia, ho bisogno di essere attivo, fare surf, o beach volley. Ma non posso rischiare che non mi trovi. Guardo Isabel divertirsi con le sue amiche, mi distraggo per qualche minuto.
«Hola, Rui. Tutto bene?»
Il mio cuore perde un battito, alzo lo sguardo. Ha i capelli scuri mossi dal vento, un costume colorato che disegna le sue curve, la borsa da spiaggia colorata.
Calcia le ciabatte e si siede vicino: vengo investito dal suo profumo, lo stesso che mi ha accompagnato per tutta la settimana.
«Pensavo che non venissi più, ti aspettavo.»
«Scusa, abbiamo trovato un traffico terribile. Mio padre era nervosissimo, mia madre urlava come una matta. Non mi fanno tenere il telefono in macchina, e ho guardato fuori dal finestrino per due ore.» Si rabbuia, mentre saluto i suoi genitori che si stanno sistemando al loro ombrellone poco più in là, vicino ai miei.
I suoi litigano spesso, magari è per quello che non mi ha risposto. Vorrei solo assorbire la sua tristezza, farla stare bene.
«Non pensarci, ora sei qui, nella spiaggia più bella del Portogallo.» Esito, poi aggiungo: «con me.»
Sorrido, la sua mano è a due centimetri dalla mia, sull’asciugamano. Ma ho paura a toccarla, che mi dica di no, mi mandi via. Non ce la farei.
«Hai ragione. Ora mi sento bene.» Mi fissa, catturando il mio sguardo: c’è solo lei su questa spiaggia, nel mondo intero.
Le sue labbra sono vicine, socchiuse, con un rossetto leggero.
Non penso, mi spingo avanti. Le sfioro con le mie per un attimo, odore di fragola.
I suoi occhi si spalancano, sembra sorpresa. Non mi manda via, si avvicina e mi da un bacio leggero, come il mio.
«Andiamo a fare il bagno?» Si alza, mi tende la mano.
La afferro, sicuro. I nostri due orologi ora sono riuniti, e tutto va bene.
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«Partita?»
Abbiamo camminato a lungo per trovare il posto ideale sulla spiaggia. Fa caldo, non vedo l’ora di fermarmi e stendermi al sole.
Ma Bruno ha le racchette in mano. In costume viola e cappellino giallo è ancora più bello, già abbronzato ai primi di giugno, bicipiti che guizzano, lo sguardo a cui non so dire di no anche se lo conosco da poco. Sorrido.
«Ok, facciamo qualche palleggio? Qui c'è posto.»
«No, ho detto partita. Ci vuole un campo.»
Tracciamo le righe nella sabbia con il tallone, camminando all'indietro. Quando ho finito, lui arriva e ride: «ma queste righe sono stortissime.
Aspetta, ci penso io.»
Le rifà, identiche alle mie. Lo fisso, incredula. Ci scaldiamo, e ho solo voglia
di fargli vedere chi sono.
«Ora cominciamo» mi dice, allegro «batti tu?»
Bruno 0 – Susana 0. Servizio Susana.
Servo dall’alto, come a tennis. Risposta forte. Colpi al volo veloci, dritto lungolinea, palla corta. Il punto è mio.
«Ehi, facciamo sul serio?» Gli chiedo, fra sfida e incertezza.
«Una partita è una partita. Avanti.»
Bruno 1 – Susana 2. Servizio Bruno.
Lui serve nell’angolo. I suoi muscoli scattano come pesci. Punto: 15-0. Dietro di noi c’è una famiglia che traffica attorno a due stand up paddle. Ci fissano, poi intuisco che tornando indietro ha sorriso alla madre, che si blocca imbarazza- ta. Pessima idea, bello. Mi stai facendo incazzare.
Bruno 3 - Susana 4. Servizio Susana, 40-40.
Ho vinto un game. Lui è forte, ma io sono più precisa.
Un paio di passanti si sono fermati a guardare. Gli scambi sono veloci, duri, nessuno dei due vuole mollare. Annulliamo i vantaggi a vicenda, poi sbaglio. Esulta felice e mi strappa il servizio. 4 pari.
Bruno 6 – Susana 6, tie break.
Il pubblico è aumentato, inclusa la famigliola. Qualcuno applaude sugli scambi migliori. Il tie break è la parte migliore della partita: i tiri sono lunghi, nervosi, adrenalina che pompa. Nessuno dei due vuole perdere.
Post-partita.
Sono seduta in terrazza, mi godo il fresco della sera. Rifletto sul nostro pomeriggio: in questa fase dove ancora ci stiamo scoprendo, Bruno avrà capito che non sopporto perdere. Mi ha irritato, fatto arrabbiare, poi è diventata una sfida divertente. Alla fine abbiamo passato una giornata speciale, di quelle che mi fanno venire voglia di investire di più.
Arriva con una bottiglia di vino e due bicchieri, un sorriso nella voce.
«Grande partita, Susie! A un certo punto volevo passare per fare i biglietti.»
«Non ti preoccupare, se fai il bravo domani ti do la rivincita.»
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Va tutto bene: sei giovane, hai un bel lavoro che ti fa viaggiare molto,
un fidanzato stupendo come Francesco che ti ama alla follia.
Però sei inquieta, perché senti che ti manca qualcosa. Forse è quella proposta di matrimonio che aspetti da anni e non arriva. Ne avete parlato, ma senti che non vuole impegnarsi. Ne parli spesso alle tue amiche sparse per mezza Europa: paura che non ti ami abbastanza, che sia attratto da qualcun'altra. Storie di momenti in cui ti sembra che prenda l’iniziativa, ma ti confonde: falsi allarmi, indizi sbagliati, piste senza uscita.
Un giorno, la tua azienda ti manda in missione in Colombia: un accordo commerciale a Cartagena, spiegare le qualità dei componenti elettronici che vendi in giro per il mondo, ormai un'abitudine. Come spesso succede, vai con la tua amica e collega di sempre: Silvia, la bella siciliana che hai conosciuto in quell'Erasmus a Dublino che vi ha cambiato la vita.
Un lungo viaggio aereo in economica, la preparazione notturna dell’incontro con i clienti. Normale, quasi noioso. In più, le telefonate con Francesco sono strane, lo senti evasivo, come se non avesse voglia di parlare.
Al tramonto, dopo la riunione, tu e Silvia volete rilassarvi sul tetto dell'hotel, dove c'è la piscina. Ordinate due birre e vi avvicinate a un angolo della vasca, lontane dalla confusione di famiglie e adolescenti.
Ci sono due ragazze, che si voltano all’improvviso.
«Ciao Barbara. Ti aspettavamo!» Te lo dicono quasi in coro con quell'accento spagnolo inconfondibile. Patricia è di Siviglia, adora il flamenco e i bei ragazzi: mentre ti abbraccia si distrae a guardare il papà muscoloso che gioca con i suoi bambini nella piscina. Accanto a lei, Ines ha gli occhi felici, che brillano, come sempre.
«Ma no... cosa fate qui?» Guardi Silvia, che sorride, ma non capisci: non le vedi di persona da almeno cinque anni, quando vi siete salutate davanti a un pub in Temple bar: era la tua festa di addio, l'ultimo giorno in Irlanda.
Senti le lacrime affiorare, quando noti altre due arrivare, gli asciugamani legati sul petto. Le riconosci, e vorresti svenire.
Elin è svedese, introversa e silenziosa, la più sensibile, ha sempre un sorriso e una telefonata da regalare quando ti serve una voce amica. Annette invece è rigida, precisa, una madre di famiglia dall’educazione tedesca classica. Ma ora è felice, ti sembra di nuovo la ventenne che si gustava un cocktail dopo l'altro nei pub irlandesi.
«Non ci posso credere. Siete tutte qui. Ma perché? Non capisco.» Sei confusa, da un normale viaggio di lavoro sei ripiombata nel periodo più bello, dove avete fondato la vostra amicizia.
Contro luce, il tramonto alle spalle, arriva un ragazzo alto, con gli occhiali da sole e un cappello, si avvicina a bordo piscina. È Francesco.
Ora la confusione è totale: guardi loro, che ridono come matte, poi lui che ti fissa, gli occhi pieni di amore.
«Scusa se non ti abbiamo detto nulla, Barbara. Volevamo farti una sorpresa: mi hanno detto che non potevano mancare questo momento.» Tira fuori qualcosa dalla tasca, si inginocchia.
«Vuoi sposarmi?»
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